Durante un incontro preparatorio della mostra “La grande inquietudine. Péguy e la città armoniosa”, realizzata dalla nostra Fondazione in collaborazione con la Fondazione Censis, un giovane lavoratore è sbottato: “Sì, bella questa cosa della sedia ben fatta di Péguy, ma per me che faccio tabelle Excel tutti i giorni, che cosa vuol dire?”
“Diccelo tu”, è stata la mia risposta.
Abbiamo chiesto allora a circa un centinaio tra giovani lavoratori e studenti universitari di rispondere alla provocazione di Péguy sul “lavoro ben fatto” e sul “lavoro disinteressato”, oltre che sull’inquietudine che ha caratterizzato la sua vita.
Hanno risposto in 54. Ecco, sintetizzate, alcune delle loro risposte.
Roberta, studentessa universitaria
Quando penso ad un lavoro ben fatto penso ad un regalo da offrire a qualcuno. A nessuno piace ricevere dei regali buttati lì, un po’ a caso, presi perché si dovevano prendere. Un lavoro fatto bene è un lavoro che vuoi offrire, offri te stesso verso un altro— che nota bene, potrebbe essere uno sconosciuto (come, ad esempio, è un assistente che ti deve interrogare all’esame). Un lavoro fatto bene è un lavoro che esprime me che desidera incontrare un altro.
Nalisha, cinese, lavora come Policy officier in un organismo internazionale a Ginevra
Aver fatto un buon lavoro alla fine della giornata significa che ho messo tutto il mio impegno in tutto ciò che ho affidato al mattino a Diao per la giornata, e sono consapevole delle cose in cui ho avuto “successo”, delle circostanze in cui sono stata messa e dei miei fallimenti con gratitudine e pace. Il mio tempo libero non passa “senza fare niente”, ma con un impegno attivo per offrire liberamente il mio tempo agli altri, in modo da scoprire il mio vero io.
La mia inquietudine mi porta a scoprire Dio, ovunque nel mondo, dalle sedi internazionali del potere alle più lontane tribù nomadi di estrema povertà materiale. Pensavo che subito dopo il battesimo sarei stata a casa perché avevo trovato Dio, ma questa inquietudine continua a bruciare nel mio cuore. Solo quando ho incontrato un padre missionario benedettino, padre Florian von Bayern OSB, nel mezzo del nulla tra Etiopia e Kenya, tra le tribù dei Dassanach, ho capito perché sono ancora inquieta. Questa inquietudine è la mia stabilità, una stabilità dinamica in cui discerno e seguo costantemente ciò che Dio mi chiama a fare. Dal punto di vista professionale, posso avere il curriculum più folle e casuale, ma ogni esperienza fa parte del mio “Theo-drama”, in cui lascio che sia Dio a dare forma al mio percorso professionale. Non è facile, ma non posso perdere questa Libertà e un cuore inquieto, che sarà soddisfatto solo fino al momento della mia morte.
Stefano, impiegato
Non mi piace parlare di “tempo libero”, anche il lavoro è tempo “libero” che scegliamo di impiegare lavorando. È necessario trovare un equilibrio tra lavoro e gli altri interessi, proteggere il riposo proprio e di chi lavora con te. Il lavoro gratuito non è lavoro, è volontariato e come tale va considerato.
Martina, studentessa universitaria
Un lavoro ben fatto, per me, è quando attraverso quell’azione, che per me ora è soprattutto lo studio, io posso contribuire alla costruzione di qualcosa di più grande. Il tempo libero è forse ciò che di più scomodo ci sia perché ti chiede di esserci. Di guardarti, di osservarti nel profondo, di guardarti in azione per cogliere ciò che maggiormente desideri. Non sempre questo esercizio è facile e nemmeno lascia tranquilli. La mia inquietudine, ora, è di accontentarmi. Sto per terminare il mio percorso in università e per entrare nel fatidico mondo del lavoro. Mi accorgo di aver timore di perdere di vista me, i miei desideri e accontentarmi, abbandonandomi “alle logiche del mondo”: potere, soldi, fama.
Giovanni, insegnante
Quando preparo una lezione o correggo un tema o una verifica, o interrogo, o aiuto nello studio, fa la differenza, tra un lavoro ben fatto e uno non ben fatto, sicuramente essere ben formato, ma anche mettere in discussione quel che so o presumo di sapere: un lavoro ben fatto non si fa a priori o senza un’adeguata preparazione, perché in un certo senso c’è una tecnica, che si adegua e cresce nel confronto con la realtà del bisogno educativo. Occorre infatti guardare chi è colui che hai davanti: chi è, cioè, cosa sa, cosa non sa, cosa gli interessa, qual è la questione cruciale che come essere umano si trova davanti in quel momento ad affrontare. Aver coscienza di questo permette di svolgere il mio lavoro senza applicare schemi preventivi o essere alienato in programmi imposti da altri, ma con consapevolezza di quel che sto facendo, perché mi permette di pormi in relazione coi ragazzi rendendo mia la loro condizione, lasciando che essa mi interroghi sulle modalità con cui scegliere e presentare un certo argomento. Infine occorre conoscere e continuamente riconoscere il significato del lavoro, o meglio, la relazione tra quella specifica mansione che si sta svolgendo, ad esempio segnare su un tema un errore nell’uso dei tempi, e lo scopo finale del lavoro, nel mio caso di tutto il processo educativo, che è la crescita, la trasformazione, la maturazione dell’altro come soggetto adulto, libero, cosciente di sé.
Nel lavoro, anche in quello svolto nel tempo libero, c’è sempre un’utilità per l’altro, ad esempio nel ritinteggiargli il muro di casa, perché vai incontro a tutta una serie di bisogni: igienici, di bellezza, …
L’inquietudine che rimane è legata al fatto di non possedere uno strumento, un pulsante, per essere meccanicamente felice. Ancora non ho fatto pace con il fatto che la mia vita sia un dono da ricevere, da attendere, riconoscere, accogliere e per ciò stesso strutturalmente inquieta e nostalgica di un bene che, venuto, continua a venire in forme diverse, ma al quale, se non si vuol essere cinici e rinunciare a sé stessi, occorre con fatica sempre tornare. In un certo senso è il “lavoro” della vita.
Diego, studente universitario
Quando un lavoro è ben fatto? Quando ho la fortuna di rendermi conto per chi lo sto facendo”. Péguy sosteneva che in tempi passati gli uomini andavano al lavoro cantando, ecco questa mattina sono arrivato in università esattamente all’opposto, affaticato e con la testa altrove. Così mi accade anche quando faccio il volontario nella cartolibreria della cooperativa universitaria, perché per quanto possa piacerti, un lavoro rimane un lavoro e costa fatica, tempo ed energie, specialmente quando la vita sembra aggredirti su tutti i fronti. Il mio malumore è stato vinto soltanto da una cosa, da Giorgio (un ragazzo disabile che accompagno due mattine alla settimana) e da una cliente sconosciuta. Il primo non si dimentica mai, nel corso della giornata, di dirmi “Che bello che tu sia qui!” ed è una cosa che sempre smussa gli angoli ruvidi della mia fatica, del mio orgoglio perché come un guanto di sfida mi schiaffeggia e mi provoca: io sono nero e lui vede una bellezza e l’afferma. Ed io, sono costretto a riprendere sul serio il lavoro. Tutto diventa, se non canto, domanda, tutto diventa urgente, dalla pagina noiosa di filologia di cui non capisco niente al dargli bene da bere. Ecco, io credo che un lavoro bene fatto sia questo: faticare ma misurandosi con un bene presente.
Annamaria, medico
Per me un lavoro ben fatto significa aver curato con professionalità e umanità ciascun paziente e aver svolto scrupolosamente l’attività didattica e di ricerca di cui mi occupo. Inoltre aver imparato dai miei errori e aver saputo chiedere scusa o ringraziare quando necessario. Rispetto al lavoro la mia inquietudine è quella di non essere preparata sufficientemente per rispondere alle esigenze dei miei pazienti. Senz’altro mi sprona ad approfondire costantemente le mie conoscenze.
Costanza, laureanda
non ho mai studiato così tanto in vita mia, come ho fatto in questi cinque anni. Per i primi esami lo scopo non era chiaro. Vivevo l’ansia di restituire ai miei genitori quanto da loro sacrificato per mandarmi all’università. Ogni esame, ogni pagina di studio, conteneva in sé un ricatto. Fino a quando mio fratello mi disse: “Ma lo sai che i tuoi genitori desiderano solo che tu sia felice?”. Allora mi dissi: “Lo faccio per me”, nessun altro meritava la mia fatica e la mia dedizione. Ma ogni 30 era una carezza amara: entusiasmo che durava il tempo di uno spritz post esame, per poi tornare a casa, da sola, con una sola domanda “è davvero tutto qui?”. Fino a quando ho conosciuto delle persone che vivevano lo studio in un modo mai visto prima: studiavano insieme, i più grandi aiutavano i più piccoli e i più piccoli chiedevano a loro tutto, non solo un aiuto nello studio, ma domande che dalle pagine di diritto commerciale arrivavano fino alle questioni cruciali della vita. lo studio per loro era qualcosa che c’entrava con le domande di amore, felicità, giustizia che tutti abbiamo. In questi anni di università, ho incontrato la fede, è come se quei ragazzi lì, con il loro modo di vivere lo studio in maniera così diversa, mi avessero fatto una promessa: “sei fatta per qualcosa di infinitamente più grande”. E in questo “infinitamente più grande” ci sta dentro tutto: le ore passate sui libri, l’entusiasmo per un bel voto, il darsi da fare per la tesi. Lo studio che facevo, non era più per me, ma per quella promessa. Il lavoro fatto bene per me, allora, è il lavoro che è espressione di una gratitudine, non di una misura.
Innocenzo, imprenditore
quando un prodotto è apprezzato dai clienti finali che lo usano, quando un collega è soddisfatto del risultato raggiunto dopo tanti sforzi, quando possiamo riconoscere un beneficio (anche economico) a uno dei nostri collaboratori, quando ho migliorato il rapporto di fiducia con un collaboratore. Tutto questo fa per me un lavoro ben fatto. Dedicare tempo gratuitamente a una causa è un’ambizione, ma è poco praticabile in modo continuativo.
Costanza M., studentessa universitaria
Il lavoro disinteressato e gratuito? Ho trascorso alcuni mesi all’interno del Banco Alimentare della Lombardia con un progetto di stage e tesi. L’impegno del Banco si realizza quotidianamente grazie al lavoro gratuito di quattrocento volontari che collaborano con l’associazione, oltre a quello di sedici dipendenti. All’interno del Banco si respira una “cultura della casa” e dunque l’ambiente si caratterizza per una serena convivenza organizzativa, che si traduce in una flessibilità di lavoro che a sua volta rende l’impegno lavorativo sostenibile. Mi sono chiesta: che “Cosa mi lega a questo luogo? Forse il riconoscimento sociale mi sono inizialmente risposta, ma tale riconoscimento è residuale. C’è molto di più nella forza motrice che accende i collaboratori, ed è lo scopo. il rapporto dettato dalla coscienza del perché si è insieme. In questo caso si sta insieme per aiutare certamente il prossimo ma anche per aiutarsi reciprocamente a dare un senso più grande alla propria vita. In questo modo il contesto organizzativo diventa perimetro, che dà consistenza alla propria vita e permette la maturazione della consapevolezza sul fatto che l’unico modo per rendere l’esperienza sostenibile e memorabile è circondarsi di mani tese, di persone che sono chiamate a contribuire al bene comune, di passioni, ideali: tutti elementi che ci rendono liberi attraverso il lavoro e l’amicizia.
Ma “Io sento una radicale insicurezza. / È la mia dannazione e forse la mia fortuna”. Questi versi dell’Elogio all’inquietudine di Franco Arminio mi cullano di fronte a quelle circostanze stridenti, in cui il mio cuore emette gridi acuti e aspri. Anche fare un solo passo sposta tutto l’equilibrio ma è la stessa ricerca dell’equilibrio precario che ci rende pellegrini, sempre in movimento. La vita, dunque, diventa quella che Franco Arminio definisce “radicale insicurezza”, la quale è grazia. Percepire questo stridore è una grazia perché sgretola le nostre fragili sicurezze, che altro non sono che comfort effimeri che ci auto-propiniamo, che ci danno l’illusione di essere al sicuro, salvi perché fermi, ma che in realtà ci assopiscono il cuore.
Pierluigi, manager
Considero un ben fatto un lavoro in cui ho raggiunto tutti gli obiettivi r dono riuscito a imparare il nome di un nuovo collega e magari anche a pranzare con lui. Ho cambiato tre aziende in sei anni. Per me l’inquietudine è il periodo di prova ogni volta che cambio lavoro.
Simone, studente universitario
Un lavoro ben fatto non è solo un lavoro che funziona, che ha raggiunto il suo scopo, che è fruibile. Un lavoro ben fatto coniuga un’esigenza pratica con lo sforzo e la passione del suo autore. Si sente di aver studiato bene non solo quando la mole di lavoro portato a termine è grande, ma soprattutto quando lo studio ha portato a galla la bellezza dell’oggetto che stavamo studiando. Spesso, quando questo accade, lo studio inizia ad essere disinteressato, ossia ad avere come scopo primario la conoscenza e non la performance all’esame.
Il tempo libero per me è il tempo in cui posso dedicare le mie energie e la mia fatica a qualcosa che non ha alcun ritorno immediato, ma a ciò che mi piace fare e mi interessa senza secondi fini.
Il lavoro gratuito è la disponibilità a dedicare il proprio tempo a un’idea o a un’opera in cui si crede. Se nel lavoro ciò che spesso purtroppo ci fa sopportare la fatica è l’idea della ricompensa, l’idea dello stipendio, nel lavoro gratuito la fatica mette in gioco la nostra fedeltà a ciò che stiamo facendo. Il lavoro gratuito ci chiede di mettere a disposizione una delle cose più importanti che abbiamo, ossia il nostro tempo.
Gessica, studentessa universitaria
Sento di aver fatto un buon lavoro quando riesco a superare un ostacolo particolarmente difficile da affrontare. Ritengo, tuttavia, che un lavoro ben fatto non debba essere misurato solo dal raggiungimento di un obiettivo, ma anche dalla crescita e dal processo di apprendimento che si verifica nell’arco della giornata. Nel fallimento, infatti, si celano opportunità di miglioramento che vanno riconosciute e valorizzate come parte di un buon lavoro. Inoltre, l’essere stati semplicemente se stessi ed aver agito in modo autentico vanno considerati indicatori di un buon lavoro svolto.
Il tempo libero per me non è un periodo vuoto o inattivo da riempire con qualsiasi attività, bensì un momento nel quale ho scelto di dedicarmi a qualcosa di significativo. Un’opportunità preziosa per investire in me stessa attraverso gli esempi e le testimonianze di coloro con il quale ho deciso di condividere questo tempo. Da circa tre anni svolgo volontariato presso un’associazione tra le cui attività propone doposcuola ai ragazzi di famiglie svantaggiate. Ogni volta che rientro dai quei pomeriggi trascorsi insieme a studiare con i ragazzi più grandi o a fare un disegno con i più piccoli sento di aver attribuito un valore al mio tempo, offrendo il mio aiuto a chi in quel momento ne ha bisogno. Credo che il sentirsi utili sia una tra le tante gioie che la vita possa offrirti. Il lavoro gratuito in tal senso diviene un’occasione di crescita personale e di investimento nella maturazione individuale
La mia inquietudine più grande è da sempre la paura di deludere le persone a cui tengo di più, a questa si aggiunge il timore di non riuscire a ricambiare totalmente il bene che ricevo ogni giorno dalle persone che mi circondano. Il senso di gratitudine e la riconoscenza che provo però verso gli altri mi spingono a dare sempre il meglio per questo in tal senso si trasforma in inquietudine positiva.
Raffaele, commercialista
Tempo libero e lavoro gratuito sono entrambi fondamentali: il tempo libero è l’altro piatto della bilancia, che mi aiuta a restare in equilibrio e non farmi travolgere dal lavoro; il lavoro gratuito è il contributo che fornisco alla società, assistendo chi, pur avendo bisogno del mio apporto professionale, non potrebbe sostenerne i costi.
“L’uomo, questo pozzo d’inquietudine”. Mai come nel mio lavoro quest’affermazione è vera! La mia inquietudine è data dal fatto che, quando agisco vengo sempre percepito come un pazzo visionario e ostacolato da chi mi circonda, ma poi nove volte su dieci le mie azioni si rivelano corrette. Dunque, non è un’inquietudine positiva nel punto in cui mi porta allo scontro con chi mi circonda, ma questo dipende dal fatto che non tutti sono in grado di “vedere”, mentre lo è nel punto in cui mi porta a governare l’onda, cavalcandola invece di esserne travolto.
John Edgar, studente universitario
Ci sono giornate che ti rendono realizzato nelle quali dentro di te sai di aver fatto il possibile per perseguire gli obiettivi prefissati, cercando di realizzare i tuoi desideri. Ciò non significa lavorare in modo matto e disperato bensì lavorare con criterio e tenendo sempre in mente l’essenziale, senza perdersi in ansie inutili. Passo dopo passo, il desiderio si concretizza. Questo per me è un lavoro ben fatto.
Ottavia, studentessa universitaria
Lavoro ben fatto è aver acquisito delle conoscenze e farle mie, aver raggiunto degli obiettivi prefissati. Nel caso in cui non riesca a conseguire tutto ciò che mi ero proposta di fare, cerco di dare valore comunque anche ai minimi obiettivi raggiunti. Se ciò che ho studiato mi porta curiosità e mi fa andare un po’ “fuori traccia”, ritengo sia un valore aggiunto.
Il tempo libero è necessario, e spesso usato con superficialità. Ritengo invece che sia tempo “d’obbligo” in quanto si può dare sfogo alla propria creatività e crescita personale – sociale e non. Il lavoro gratuito, perciò, non dovrebbe essere tale: il lavoro deve essere retribuito, per dare anche una netta differenza tra tempo libero e operatività. Si può dire che lavoro gratuito equivalga a volontariato? In fondo, credo di no. Credo, infatti, che il volontariato abbia una spinta generata da una fonte motivazionale diversa, più intima e personale rispetto al lavoro gratuito.
Elisa, studentessa universitaria
Per me il test si un lavoro è fatto bene è sentirmi completamente soddisfatta, senza il dubbio di poter fare di più, e ricevere il riconoscimento degli altri. Tempo libero e lavoro gratuito hanno per me una funzione rigenerante che mi ricorda il senso della vita. L’inquietudine? La costante paura di non stare approfittando di tutte le opportunità che la vita mi offre.
Ivan, studente universitario
Il tempo libero è un intervallo necessario e “sacro” anche per la buona prosecuzione del lavoro. Il lavoro gratuito non può esistere, perché in qualche modo, materiale o immateriale, si viene sempre ricompensati.
Clelia, studentessa universitaria
Il lavoro gratuito è un incentivo a mettersi in gioco a prescindere dal compenso; oltre che ad avere un grande valore sociale (ad esempio pensando ad attività di volontariato), credo sia molto importante per capire il vero valore dell’impegno e della fatica.
Alice, studentessa universitaria
Il tempo libero per me sono quei momenti in cui non ho impegni e che quindi posso dedicare ad altro, come ad esempio attività di svago, che penso siano molto importanti per bilanciare le molte ore di lavoro giornaliere. Il lavoro gratuito invece lo intendo come quel lavoro che pur non essendo stato richiesto da nessuno, sono disposta a fare e senza aspettarmi niente in cambio.
Ludovica, studentessa universitaria
Il tempo libero è il tempo del riposo, non solo fisico ma anche mentale. È il tempo di ricarica delle energie, il tempo per assaporare ogni cosa. È il mio tempo.
Claudia, studentessa universitaria
È il tempo non vincolato, quello in cui posso dedicarmi a cosa davvero mi rende libera e felice. Credo abbia valore anche quando non lo si impegna in attività specifiche ma ci si adagia nella sua bellezza. Vorrei avere più tempo libero per poter offrire le mie competenze in cambio di nulla, credo che il lavoro gratuito (inteso come solidarietà sia ciò che contribuisce a mantenere viva.
Silvio, dirigente
Lavoro in Lussemburgo, se ho svolto coscienziosamente le mie attività giornaliere, se ho dedicato del tempo per “ascoltare” ciascun membro del team, se sento di aver realizzato qualcosa di utile non solo per me, ma anche per coloro che mi circondano. Ecco quella è una giornata di lavoro ben fatto. Quanto al lavoro gratuito lo intendo come il mettere le proprie competenze a disposizione di chi ha bisogno.
Lucia, studentessa universitaria
Le domande che mi porto dietro ogni giorno sono tante… direi che inquietudine racchiude bene il sentimento. Se devo dire la cosa che più mi spaventa è la solitudine. Più vado avanti e più mi rendo conto che ciò che mi “accende” nella vita sono i rapporti profondi con le persone. Però in fondo ognuno ha la sua vita, amici compresi…e quindi come si può non essere soli? L’altra inquietudine è la paura di non vivere la vita al massimo e profondamente, è come se ogni giorno vorrei che ogni singolo momento fosse denso di esperienze significative. Questa “fame” di significato da un lato mi inquieta ma dall’altro mi stimola a “cercare” senso in tutto quello che faccio.
Giorgio, studente universitario
Nello studio come nella vita non si finisce mai. O almeno nel momento in cui non ricominci sei finito. Penso che l’inquietudine sia il modo in cui il nostro corpo ci fa capire fisicamente questa cosa e può essere positiva solo nella dimensione in cui noi riusciamo ad accoglierla e non a farci sovrastare.
Ludovica, studentessa universitaria
La mia inquietudine è la consapevolezza che nulla mi basta. A volte è motivo di tristezza, ma il più delle volte è lo slancio a migliorarmi, a cercare il buono e il bello in tutte le cose.
Irene, fisioterapista in un centro riabilitativo
Per il tipo di lavoro che faccio la prima cartina tornasole di una giornata di lavoro ben fatto sono le reazioni dei pazienti. Quando mi dicono che stanno meglio o che apprezzano il lavoro fatto con loro sento di aver fatto un buon lavoro. Tuttavia questo, pur essendo fondamentale, non sempre basta. Ci sono volte in cui i pazienti mi danno feedback positivi anche se io so di non aver fatto del mio meglio, oppure ci sono volte in cui io lavoro al massimo delle mie capacità ma i pazienti non migliorano. Quindi l’equazione è sicuramente molto più difficile di così. Sicuramente per me è importante sentirmi utile, essere presente in quello che faccio e applicare le mie conoscenze al massimo delle mie capacità (che possono essere variabili in base alla giornata, purtroppo). Si può forse dire che una giornata in cui ho fatto un buon lavoro è una in cui sono riuscita a ricordarmi il più a lungo possibile il motivo per cui ho scelto questo lavoro: essere il miglior strumento possibile (in base alle mie capacità e condizioni giornaliere) nell’aiutare i miei pazienti.
Il lavoro mantiene la società in vita, ci permette di collaborare al benessere di tutti (in diversi modi) e ci permette di vivere, tramite il salario. Il mio tempo libero l’ho sempre passato e continuo a passarlo in compagnia delle persone che mi fanno stare bene. Dunque non deve essere riempito di mille altre attività, ma solo di stimoli utili alla crescita della mia persona.
Vivo situazioni e rapporti dolorosi, anche con una persona affetta da salute mentale. È estremamente difficile e ha risvegliato in me un’enorme inquietudine. Le questioni aperte sono brucianti: l’ingiustizia terribile che emerge nel mettere a confronto la mia vita privilegiata e tutte le cose orribili che ha dovuto affrontare questa persona, la necessità di avere fede per non crollare sotto il peso della responsabilità che si scontra con la debolezza della mia fede, lo scontro tra la visione del mondo che mi crede pazza per la decisione di rimanerle accanto. Ho la certezza che nessuno è nato per essere perduto. Ognuna di queste cose brucia e richiede una risposta o più che altro un senso, perché risposte risolutive e semplici per queste questioni non credo che ne siano. Questa inquietudine, quando non viene sopraffatta dal terrore, dall’ansia, dallo sconforto, ha di per sé anche un lato positivo. Provo a volte a immaginare la mia vita senza tutto questo dramma e l’immagine che si crea è quella di una vita serena ma piatta, inconsistente. Questo tipo di sofferenza mi costringe a chiedermi quali sono le mie priorità, su cosa voglio investire e su cosa baso le mie certezze.
Marco, economista a Londra
Come economista, considero di aver fatto un buon lavoro quando produco un’analisi robusta, chiara e basata su evidenza solida. Ma è anche importante riuscire a comunicare la mia analisi in maniera efficace. L’inquietudine principale è quella di non essere all’altezza di nuove sfide. Ma nuove sfide aiutano a crescere. L’importante è che le nuove sfide siano proporzionate e graduali.
Claudia, public relations
Il lavoro ben fatto è quello che ho svolto le mie attività con qualità e gentilezza. Il Tempo Libero è tempo per stare con la mia famiglia e per coltivare i miei interessi, per le relazioni di amicizia. Il lavoro gratuito non ha senso: il lavoro va remunerato equamente sempre. Altro tema invece è quello dell’impegno nel volontariato: volontariato significa dedicare gratuitamente tempo e competenze per progetti di solidarietà che mi stanno a cuore.
Filippo, ufficio stampa
Per me un “buon lavoro” è un’opera curata in tutti gli aspetti, frutto di ore di concentrazione e studio. Fare un buon lavoro significa operare in armonia con i propri collaboratori, non perdere tempo con attività che distolgono dall’obiettivo e compiere il proprio dovere con uno spirito di servizio e di donazione.
L’inquietudine è una circostanza benedetta e lo stato che ti muove a superare la propria area di confort, che ti spinge a conoscerti in profondità, a uscire e a mettere a disposizione degli altri i propri talenti e il proprio essere.
Adele, impiegata in una Autorità di sistema portuale
Ritengo che un lavoro ben fatto sia quello svolto nei tempi previsti e in maniera corretta. Riconosco l’importanza del lavoro e se devo fronteggiare un’urgenza, mi fermo a lavorare senza problemi, ma penso debba essere l’eccezione e non la regola: infatti, ritengo che chi si ferma in ufficio molto più del dovuto (senza apparente motivo) non debba essere lodato, ma anzi nasconda un’incapacità di organizzare il proprio lavoro nel tempo prestabilito.
Il nuovo non mi spaventa particolarmente. Mi sono laureata magistrale nel luglio 2019 e da allora ho cambiato quattro lavori in settori differenti: Ogni volta che ho cambiato lavoro, vivevo positivamente la novità, mi chiedevo “chissà come sono i colleghi. Chissà cosa andrò a fare di preciso”. In tal senso non ho inquietudine.
Marco, ingegnere dell’automazione a Monaco di Baviera
Lavoro ben fatto? Aver avuto un impatto positivo nello sviluppo del prodotto su cui sto lavorando, o aver scoperto un metodo per migliorarlo. L’impatto climatico delle attività umane, attività spesso volte a far arricchire un ristretto gruppo di oligarchi, è una inquietudine che sento moltissimo, soprattutto adesso che sono padre. Può essere positiva come sprone al cambiamento, cambiamento che vedo molto poco nel mondo intorno a me.
Filippo, avvocato
Ho aiutato qualcuno e/o risolto un problema grazie alla mia preparazione e dedicazione professionale? Se sì, è un lavoro ben fatto. Il che comprende e interessa anche le persone e i luoghi. Il lavoro gratuito è un grande allenamento alla propria umanità e ai propri valori, per il bene degli altri (penso al volontariato). Al momento ho diverse inquietudini, ma la maggioranza ha a che fare con un senso di ansia per il futuro. Non necessariamente negativa; il futuro per me è una sfida al momento e cercherò di affrontarla giorno per giorno.
Sara, medico
Cerco di fare a meglio delle mie possibilità nelle condizioni in cui sono, l’utilità del mio lavoro è cercare di salvare le persone. Tempo libero e lavoro gratuito danno valore a ciò che a volte viene quantificato solo dal denaro. La mia inquietudine è imparare sempre nuove nozioni e “combattere” per chi in quel momento non può farlo.
Laura, architetto e dirigente
Mi pare un buon lavoro quello che mi fa accogliere le istanze dalla realtà in cui mi trovo e mi permette di solcare anche strade nuove benché più impegnative. Per me il lavoro è sempre un fatto di creatività personale, non solo perché da una vita sono architetto. È proprio “espressione di sé” anche quando mi trovo a svolgere mansioni necessarie e funzionali o compiti a me non congeniali. Da qui l’utilità è per me quella di fare il mio lavoro in modo che sia a servizio degli altri e che quindi sia facilmente fruibile. Quello che mi piace e che spero di realizzare con il mio lavoro, più che una inquietudine, è una risposta che dura quanto una vita e che nel tempo fa i conti con fasi alterne e insuccessi. Mi sento immersa nella realtà grazie alla possibilità di vivere ogni giorno il lavoro come una missione che sa di eternità.
Daniela, dipendente di una multinazionale americana
Lavoro da circa 25 anni nella stessa azienda. Ho cambiato internamente e ho svolto diversi ruoli. All’inizio del mio percorso lavorativo, fare un “buon lavoro” significava principalmente essere “riconosciuta”, trovare un “riconoscimento” dall’esterno, dai capi, colleghi eccetera. Poi ho imparato per esperienza che questo riconoscimento non sempre arriva, ma ciò che non può mancare al “lavoro ben fatto” è la coerenza, una profonda adesione, con i valori fondanti della mia vita: il rispetto per la dignità di ciascuno (collaboratore o pari che sia), il mettere i miei talenti a servizio di un bene “più grande”, che supera l’interesse individuale o di un piccolo gruppo, fosse anche una grande multinazionale. Sento di aver fatto un “buon lavoro” quando sono rimasta fedele a me stessa, all’energia di vita che mi attraversa e che abita ogni luogo, ogni circostanza, ogni impegno e lavoro umano. Il lavoro è “utile” se crea qualcosa che prima non c’era, fosse anche un ambiente di lavoro o relazioni più umane, più sostenibili, meno invischiate da cordate, lotte di potere, conflittualità. Il lavoro “utile” è lasciare una traccia …. Un’impronta che prima non c’era e che potrà essere seguita e completata da altri.
Tempo libero per me e il tempo necessario per riprendere contatto con quella fonte interiore che mi rigenera, mi motiva, mi spinge all’azione in modo disinteressato e gratuito. Senza questo “tempo libero” il lavoro diventa abitudine, routine, fine a sé stessa: lavoro perché “devo” e non vedo più altro fine che il sostentamento mio e della mia famiglia. Se invece faccio spazio dentro di me a questo “tempo libero” in cui posso essere semplicemente me stessa, allora mi diventa tutto più chiaro, anche il lavoro più nascosto, meno appagante e all’apparenza non premiante, diventa pieno di senso, di gusto, di vita.